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L’amante prof. 1 – “sappiamo entrambi come andrà a finire, non appena avremo modo di vederci da soli”

“Come mi guardava però, si sarebbe detta, come mi parlava, si vedeva che anche lui era eccitato…”

I. “sappiamo entrambi come andrà a finir non appena avremo modo di
vederci da soli”
Era solo da qualche giorno che la collega di scienze aveva alluso alla simpatia nei miei confronti. Mi ero trovato per caso in macchina con lei al ritorno di un pranzo di lavoro. Mi stava riaccompagnando a scuola, e approfittò per dirmi con un sorriso innocente che le piacevo. Non poteva esporsi troppo; oltre al marito e al figlio, la sua fama di bella signora ben educata, sempre estremamente corretta e controllata nel parlare quanto nel vestire e nel rapportarsi agli altri, rendeva quel suo gesto ancora più inaspettato. Non mi restava che assecondarla, senza far precipitare troppo presto gli eventi, e ho continuato sul suo campo, utilizzando le stesse vaghe allusioni, in un valzer di ammiccamenti crescenti. Non avevo il numero del suo cellulare, chiederglielo fu una promessa, l’annuncio che il gioco sarebbe proseguito anche a distanza. Così avvenne, ma volli aspettare il giorno seguente, affinché maturasse l’eccitazione con il brivido dell’attesa. Sapevo che avrebbe passato la serata a ripensare alle nostre parole, come me d’altronde, con un misto di compiacimento e rimorso. Si sarebbe chiesta se avesse fatto bene manifestarsi in quel modo, se non avesse fatto sicura della puttana con il suo collega, il quale magari non era assolutamente interessato a lei. Come mi guardava però, si sarebbe detta, come mi parlava, si vedeva che anche lui era eccitato. E si sarebbe bagnata di nuovo anche la sera, come era avvenuto in macchina, scoprendomi acceso alle sue parole. Aveva notato che i miei jeans stretti stavano rispondendo alla sua eccitazione mettendo in mostra un leggero rigonfiamento tra le gambe. Ci si era soffermata con lo sguardo per una frazione di secondo , e aveva intuito immediatamente dove saremmo prima o poi arrivati, inesorabilmente. Il mattino seguente era in servizio in un’altra scuola, ciò mi permetteva di scriverle senza il timore di comprometterla a casa, ma con la giusta distanza per sentirmi libero di continuare con le nostre allusioni. Mi ha fatto piacere la nostra breve chiacchierata di ieri, le scrissi, sincera e spudorata, spero non ti sia offesa per qualcosa che ho detto di troppo esplicito. No, anzi! La sua risposta che non tardò ad arrivare. Sembrava stesse aspettando il mio messaggio, come trattenuta, pronta a sfogare quell’eccitazione che l’aveva portata di mattina prestissimo addirittura a chiudersi in bagno per accarezzarsi violentemente il clitoride, gonfio da ore nella notte insonne. No, anzi! In certi momenti, e in alcune situazioni, la spudoratezza oltre ad essere piacevole è anche necessaria, ribatté. Ormai era fatta, occorreva solo mantenere il giusto equilibrio, non avere fretta ma procedere senza esitazioni. I nostri messaggi diventavano sempre più decisi, ci dicevamo cosa ci piaceva l’uno dell’altra e quali particolari notavamo nei nostri sguardi e nei nostri atteggiamenti. Era inevitabile mettere in campo il solito armamentario di riferimenti agli sguardi che spogliano, alla voce calda che rincuora, alle labbra carnose che fanno girare la testa. Noioso passaggio retorico necessario a confortare e ad animare la donna che ha bisogno di essere guardata, notata, apprezzata. Cercai di assolvere a questo compito il più presto possibile, mettendo però in campo tutta la mia sensibilità coltivata in anni di letture.
Non ci eravamo più rivisti da soli, ma per dopo qualche giorno era previsto un Collegio docenti. Una di quelle noiosissime riunioni che un dirigente incapace può far diventare mera occasione burocratica. A me non sarebbe comunque interessato nulla di ciò che mi sarebbe successo intorno, in quella riunione che stavo attendendo solo per mettere in atto un eccitante gioco a due. Fu in mezzo a decine di colleghi che ci parlavano e con cui scherzavamo che cominciai a scriverle dei messaggi espliciti. Le insinuavo quanto sarebbe stato divertente poterci allontanare per vederci da soli in un’aula deserta e buia della scuola, o in un laboratorio, per poter continuare a parlare a quattr’occhi l’uno di fronte all’altra, vicini. Lei arrossendo dopo aver letto i messaggi mi rispondeva seguendomi in questo gioco. Vedevo il suo volto che, rosso per la vergogna, diventava paonazzo per l’ eccitazione. Le dicevo per la prima volta che se fossimo fuggiti dalla riunione per vederci in qualche angolo scuro della scuola ci saremmo sicuramente baciati. Non mi rispose, era la prima volta che mettevamo in campo una parola che ci avrebbe compromesso per sempre: baciati. Questo pensiero la spaventava, ma allo stesso tempo era irresistibile, avrebbe fatto di tutto per cancellare il mondo intorno, mettermi le braccia al collo e infilarmi la lingua in bocca. La vidi uscire con passo incerto, per andare al bagno o a prendere una bibita alla macchinetta. Dopo un minuto uscii anch’io, la seguii, la raggiunsi alla macchinetta, dove si era fermata per un caffè. Non c’era nessuno intorno, il corridoio dopo pochi metri svoltava; la presi per la mano e la trascinai dietro l’angolo, dove, appoggiata al muro, finalmente la baciai con un’intensità breve che la sconvolse. La lasciai lì perché avevo sentito dei passi in lontananza. La rividi pochi minuti dopo nella riunione, aveva gli occhi bassi e il volto scuro. Sembrava arrabbiata, non mi guardava più. Ero certo di aver fatto un errore, di averla offesa. Temevo si fosse sentita violentata. Le scrissi per scusarmi, ma non mi rispose. Il Collegio era quasi finito quando finalmente mi arrivò il suo messaggio. Mi chiedeva di fermarmi 5 min. dopo la riunione, di non andarmene via subito. L’aspettai in un parcheggio vicino, un po’ in ombra, dove a quell’ora normalmente non passa nessuno. Passarono pochissimi minuti prima di vedere la sua macchina avvicinarsi. Una macchina lussuosa, testimone di uno stile di vita molto più elevato del mio. Il marito, medico di un certo prestigio, le garantiva agi, una bella casa, vestiti eleganti, amicizie altolocate. Probabilmente però non era soddisfatta sotto ogni profilo, perché dopo essere entrata timidamente nella mia macchina, senza che ci dicessimo altro, cominciammo a baciarci quasi violentemente. Il suo maglioncino di angora verde si stringeva su un seno sodo, teso, che presto si offrì alla mia bocca. Non era una ragazzina, era anzi più grande di me di un paio di anni, sopra la quarantina. Eppure, spogliata dalla vita in su, sembrava una dea prosperosa, una diana pronta a farsi cacciare, come una gazzella che si abbandona al leone. Ansimava e già la sapevo bagnata. Volli verificarlo slacciandole i pantaloni. Le mutandine erano zuppe, e non esitai a ubriacarmi del loro profumo. Tirai ai piedi i vestiti e lei si liberò di una scarpa per potersi sfilare ogni impedimento. Voleva spalancare le gambe alla mia bocca. E io mi ci immersi. Per prima cosa leccai ogni umore, che colava dal pube fino al buco del culo, solleticandole con la lingua le labbra interne ed esterne. Poi mi concentrai sul clitoride, quella piccola sfera magica di carne e desiderio. Lo coccolavo facendogli piccoli cerchi intorno con la punta della lingua, per non sovrastimolarne il sensibilissimo apice. Mi ero accorto che mi chiedeva, con i sinuosi movimenti delle anche, che continuassi a titillarle il buchino del culo. Mentre lavoravo con la lingua infatti usavo le dita per penetrarla. Il medio, che le accarezzava l’ano, ne fu quasi risucchiato. Lo voleva. Voleva sentirlo dentro, desiderava che lo spingessi fino in fondo e lo muovessi piano dentro e fuori. Mi ha sempre eccitato da morire stimolare il culo di una donna, e parve accorgersi di questa corrispondenza di passioni al culmine. Sembrava impazzita, si scostò e mi spinse indietro. Lo voleva. Mi slacciò frettolosa, lo tirò fuori dai boxer – era durissimo, grande, e ne fu piacevolmente colpita – e come se lo pregustasse indugiò un secondo prima di ingoiarselo. Sì, perché sembrava che non volesse lasciarne neanche un centimetro fuori, voleva farlo suo, appropriarsene, riempirsi la bocca del suo sapore, della sua virile turgidità, ripercorrere le sue forme irregolari, il glande, la vena spermatica, i testicoli. Stavo per venire, ma lei aveva un inconsapevole pieno controllo della situazione. Divenne delicata, mi accompagnò fino al ristabilimento dell’equilibrio. Non ci sarebbe bastato. Dovevamo scoparci, venire insieme, esplodere congiungendoci. Così avvenne. Eravamo nudi. Lei totalmente, tranne i brandelli che le erano rimasti attaccati alle caviglie. Io solo nella parte inferiore. Avevo tolto pantaloni scarpe e calzini, ma ero rimasto con il maglioncino sul torace. Cercai il preservativo: non potevamo rischiare nulla, entrambi accoppiati, lei addirittura sposata, ma soprattutto volevo pensare ad altro che a penetrarla, godere liberamente senza nessuna preoccupazione. Mi infilai lo scacciapensieri, lei allargò le braccia e le gambe per accogliermi, e finalmente entrai dolcemente. Mi muovevo come volessi massaggiarla, tenendo stretti i due pubi e muovendo il sedere avanti e indietro. Così facendo lei sentiva lo stimolo anche sul clitoride. Gemeva, anzi miagolava di piacere. Ci volle pochissimo per farla venire, ma quando glielo sentii dire in un singulto di orgasmo, non resistetti più, e cominciai a muovermi più freneticamente, cadenzando i colpi con maggiore decisione. Ora sentiva solo il mio pene che la riempiva, che pulsava come un urlo trattenuto, e quando venni anche lei raggiunse il suo secondo, disperato orgasmo.
Crollammo l’uno sull’altra, senza che mi togliessi da dentro di lei. La mia testa era accanto alla sua, i nostri respiri si confondevano ansimando, le labbra quasi si sfioravano. Furono quasi baci, delicate carezze rosse, silenziose promesse. Avevamo quella insoddisfazione di chi ha trovato il piacere e appena lo ha raggiunto è già ansioso di riprovarlo. Era stata una lotta selvaggia, una giostra infantile, una partitura musicale. Ci salutammo con veloci e brevi frasi convenzionali, avevamo già dialogato a fondo attraverso i corpi. Fu solo il giorno seguente che sentimmo la necessità di raccontarci ciò che avevamo provato. Gli descrivemmo il desiderio crescente, il turbamento fisico e psicologico, l’irrefrenabile attrazione che ci spinse l’uno sull’altra, l’insaziabile fame che, come la fiera dantesca, pur momentaneamente soddisfatta non finisce mai di saziarsi. Era bastata una volta sola per cadere nel vizio che ci avrebbe dannati – se avessimo creduto -, la dipendenza tossica che ci avrebbe condannati – se ci avessero scoperti.

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Tradimenti

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